Considerazioni su “Catilina – Una rivoluzione mancata”, di Luciano Canfora

di Francesco Bellanti

COME FINISCE UNA REPUBBLICA – LA CORSA DELLA STORIA VERSO L’IMPERO – LA RIVOLUZIONE MANCATA DI LUCIO SERGIO CATILINA

Una Repubblica verso il suo inesorabile declino. Un teatro di personaggi di grande spessore politico. Una straordinaria vicenda per capire una vittima della storia. E  anche il nostro tempo.

Considerazioni su Catilina – Una rivoluzione mancata, di Luciano Canfora (e anche su altro). Un libro che è una formidabile, precisa, lucida ricostruzione di un grande storico e filologo classico, che con un’analisi precisa e documentata e una magistrale conoscenza del mondo classico, con storie di spie, lettere anonime, attentati, agguati, strani silenzi, fraintendimenti, ritocchi della cronologia e dei documenti, smonta il Dossier Catilina e ne rivaluta la figura. Ricostruisce una storia che non era mai stata detta. E alla quale abbiamo aggiunto solo qualche nostra umile nota.

“Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza sia dell’animo che del corpo, ma di indole malvagia e depravata. A questo fin dalla giovinezza furono gradite le guerre civili, i massacri, le rapine, la discordia civile, e lì esercitò la sua età matura”. ….

Queste le famose parole dell’inizio del “De Catilinae coniuratione” del grande storico – e fazioso – romano Sallustio, belle davvero, peccato che le cose non sono andate affatto così.

E allora, prima di parlare di questa famosa congiura, vediamo chi è realmente questo Lucio Sergio Catilina. Catilina  (ci permettiamo di dare qui qualche ragguaglio oltre Canfora) è un patrizio nato a Roma nel 108 a.C. e morto nella battaglia di Pistoia nel 62 a.C. (ne parleremo più avanti), la cui figura all’epoca dei fatti che stiamo narrando fu molto infamata ed è, invece, stata oggi ampiamente riabilitata, e perciò vale la pena ripercorrere qualche tappa della celebre vicenda che lo vide coinvolto (anche perché ci aiuta a capire il nostro tempo). Catilina apparteneva a una famiglia politicamente decaduta, uno dei Sergii aveva avuto il consolato ben tre secoli prima. Come tanti giovani ambiziosi, si mise appena ventenne al servizio di Silla, e si disse poi, al tempo della famosa congiura, che in quegli anni al servizio del dittatore fu un sostenitore efferato e crudele, e per ambizione si macchiò di atti spietati come omicidi, violenze sessuali – addirittura anche contro una vergine vestale –  corruzione, cospirazione, addirittura incesto e cannibalismo, e perfino dell’uccisione di un suo cognato, del quale – si disse – portò la testa che egli stesso aveva decapitato a Roma e la gettò ai piedi di Silla, ma sono fatti che la storiografia moderna ha smontato del tutto e ha addebitato all’odio politico.

Catilina ebbe due mogli: una Gratiana, nipote di Gaio Mario, e Aurelia Orestilla, figlia di  un Gneo Aufidio Oreste che fu console nel 71 a.C.. Secondo lo storico Sallustio, dalla prima ebbe un figlio che uccise perché era di ostacolo alle nozze con Aurelia Orestilla. Quasi certamente tutti questi fatti criminosi erano frutto dell’odio politico dei suoi avversari, perché Catilina fu assolto in tutti i processi intentati contro di lui, e questo, se certo gli rallentò la carriera politica, non gli impedì di diventare, in tempi ragionevoli, questore nel 78, legato in Macedonia nel 74, edile nel 70, pretore nel 68 e propretore in Africa nel 67. Nel 66 il nostro Lucio tenta la carta più importante, quella del consolato, è dalla parte dei populares, sì, è un democratico, è del partito di Cesare, un aristocratico che difende i poveri, lo accusano ancora di abuso di potere, concussione nei suoi incarichi pubblici (come se tutti gli altri governatori romani fossero verginelli), cospirazione, ma è sempre assolto. Però viene trombato. In questo periodo, pare che abbia partecipato a un paio di cospirazioni antisenatoriali, dietro le quali forse c’erano Cesare e Crasso, e fors’anche Pompeo, tipi comunque svegli, attenti a non inimicarsi i ceti abbienti. Cominciano a nascere sospetti di brogli elettorali.

Nel 65 l’ambizioso Lucio si candida ancora, e allora l’oligarchia senatoria gli mette contro Cicerone, un homo novus, un giovane e brillante avvocato, già famoso, che costruisce con lui la sua fortuna politica, è eletto e gli dà il colpo definitivo. Riprendono vigore, infatti, le accuse d’incestuoso, degenerato, assassino e così via. Ma il nostro Lucio è uno tenace, forte, sicuro, ha l’appoggio popolare, la plebe lo adora, lui ha promesso ridistribuzione delle terre demaniali, prede di guerra, ha pure proposto una legge per la remissione dei debiti, il Senato è terrorizzato. Arriviamo alla congiura. Per il 62 è eletto un altro Lucio, Lucio Licinio Murena, amico di Cicerone, che lo difende anche dalle accuse di brogli elettorali, e questo ha lingua lunga, sa parlare, l’accidente della storia è contro Lucio Sergio Catilina, non è fortunato, sì, ci sono sicuramente brogli elettorali, denunciati anche dal grande Catone Uticense, che è addirittura ostile al nostro Lucio, ma a difendere Murena, che era senz’altro colpevole, è Cicerone, mica è uno qualsiasi, il gioco è fatto.

Naturalmente, dopo tutte queste fregature, Lucio s’innervosisce, che deve fare?, la Repubblica è marcia, corrotta, è finita, non gli resta questa volta che una bella congiura, alla quale è incoraggiato quasi sicuramente da Cesare, forse anche da Crasso, che però non si sentono ancora pronti per il grande salto, se ne stanno dietro le quinte, mica sono scemi. E il cesariano storico Sallustio poi nella sua celeberrima “La congiura di Catilina” farà di tutto per allontanare i sospetti sulla partecipazione di  Cesare a qualche momento della congiura.

Dunque, all’aristocratico decaduto e indebitato Catilina non resta altro che imboccare la strada senza ritorno dell’insurrezione armata quando constata che per la terza volta consecutiva gli hanno impedito illegalmente di vincere le elezioni al consolato. Allora, riepiloghiamo i fatti con Canfora. Siamo nel 63 a.C., a Roma. Gli aristocratici rinviano continuamente le elezioni (dall’inizio di luglio a settembre, a metà ottobre, e poi ancora oltre) per disperdere l’elettorato che appoggia Catilina e perciò per poterlo battere illegalmente. Catilina è, ribadiamo, un nobile aristocratico che si mette a capo dei populares e vuole la cancellazione dei debiti, l’affissione in luoghi pubblici di liste dei ricchi. Egli rappresenta le persone indebitate che sperano in un rivolgimento politico: i veterani sillani, gli schiavi, la plebe urbana. Egli abbraccia la causa miserorum. Catilina è vittima della strategia ciceroniana, fatta di spionaggio, disinvoltura e falsificazione di documenti.

Il programma politico di Catilina è questo, egli difende chi se la passa male, e dice la verità quando si annovera tra le persone sprofondate nella rovina economica. Catilina sa attirare a sé i giovani, le donne, le matrone. Ma anche molti che aderiscono extra coniurationem: Catilina, cioè, ottiene consensi anche presso chi non è spinto dal bisogno, ma lo segue per amicizia. La plebe urbana simpatizza per lui, masse di schiavi si presentano per farsi arruolare, anche sollecitate dalle madrone.  Il mondo servile è vario: colti schiavi, cittadini, pastori, gladiatori, e aleggia ancora l’ombra di Spartaco, sconfitto solo qualche anno prima da Pompeo e Crasso. Già, ci sono anche loro, Pompeo e Crasso. Questi è l’uomo più ricco di Roma, è tra i sostenitori di Catilina, anche finanziariamente, ma capisce, come Cesare, che ancora non è il momento e si tira fuori. Fa capire a Cicerone che lui non c’entra niente con la congiura.

Abbiamo accennato a Pompeo. Già, c’è soprattutto Pompeo Magno, il conquistatore dell’Oriente, il più prestigioso uomo politico di Roma, che, mentre è in corso l’insurrezione di Catilina, tenta per interposta persona un vero e proprio colpo di Stato. Il Senato capisce le sue intenzioni e affretta la repressione militare delle truppe catilinarie ammassate in Etruria e di chiudere la partita prima che il Magno torni dall’Oriente e mantenga le sue legioni a motivo di un perdurante stato di guerra nella penisola. La vicenda politica della congiura di Catilina trova così la sua spiegazione convincente, ed è una lotta contro il tempo in vista del prevedibile rientro di Pompeo e del suo esercito. Pompeo da lontano sorveglia gli avvenimenti e per mezzo dei suoi tribuni spera di consolidare un ruolo politico di spicco anche grazie alla soppressione di Catilina.

E passiamo a Cicerone. Approfondiamo la figura di questo grande avvocato e oratore, con Seneca l’intellettuale più grande della latinità. La congiura, come detto, c’è, lasciamo stare le minuzie della preparazione, e il console Cicerone, pur di fare condannare i congiurati e fare diventare Catilina nemico dello Stato, non ci va certo leggero, usa in modo spregiudicato dichiarazioni di pentiti prive di riscontri, accuse sfornite di prove, calpesta i diritti civili riconosciuti ai cives romani, non garantisce compiutamente il contraddittorio con le parti accusate, attira i Galli Allobrogi – venuti a Roma per protestare contro il malgoverno romano – in un tranello, li induce, coprendoli di promesse, a farsi consegnare lettere dai catilinari, poi con l’inganno li chiama in senato e li smaschera. Tutto questo nel contesto di un sistema giudiziario volto alla tutela dell’establishment piuttosto che alla ricerca della verità. Così ottiene un senatus consultum ultimum, che dava ai consoli poteri di vita e di morte, e condanna a morte i congiurati, uomini famosi come Cetego, Lentulo, Statilio, sono strangolati nel carcere Mamertino dopo un processo sommario, e Cicerone non concede a loro e agli altri la provocatio ad populum, con la quale i congiurati, come cittadini romani, potevano ottenere la grazia. L’Arpinate, che aveva stravolto la Costituzione romana, altro segnale della decadenza e del disfacimento della Repubblica, per quest’azione illegale anni dopo sarà mandato in esilio. Questa volta esce allo scoperto Cesare, e glielo rinfaccia.

Ma perché Cicerone, console, il più grande avvocato e oratore del tempo, ambizioso, che si erge a difensore dell’ordine repubblicano, convince il Senato di Roma a reagire con il massimo dispiego della forza per debellare il sovversivo Catilina? Cicerone, che gli storici antichi ritengono inadeguato per le sue miserevoli astuzie rispetto alla propria pulsione al comando. Il grande oratore e avvocato vuole un ruolo di comando nella Repubblica, perché se ne considera all’altezza. Vuole diventare un grande, il salvatore della Patria, il padre della Patria. Mediocre politico, però, non sa che, in questo contesto, in mezzo a tanti grandi, lui è solo una pedina. In quel tempo, qualcuno più avveduto (Cesare, Pompeo, Crasso) ha capito che per diventare grandi occorre avere dalla sua un grande esercito. E Cicerone non comanda eserciti.

Per conseguire tale obiettivo, cioè diventare un grande pure lui, egli invece sceglie una linea di condotta strumentalmente ambigua. Cicerone, in altre parole, intende dimostrare, sia al popolo che agli ottimati, che quello tra i due schieramenti al quale egli si accosta prevarrà. Astuto. Anche troppo. Egli sa che un intervento diretto e risolutivo di Pompeo nella guerra contro l’esercito dei rivoltosi, e dunque uno scontro diretto sul campo di battaglia tra Catilina e Pompeo (con la prevedibile vittoria di quest’ultimo) cancellerebbe o quasi la sua centralità nella vicenda, nonché il suo ruolo che si sta brutalmente e disinvoltamente conquistando di salvatore della Patria. Così Cicerone diventa il temporaneo vincitore di questa partita giocata dietro le quinte della congiura di Catilina.

Ma in questa vicenda c’è soprattutto l’ombra di Cesare, che è ancora un giovane trentasettenne, ambizioso, che in questo momento è schierato con Pompeo, e lo sarà ancora a lungo. Lui guarda lontano, a un accordo con gli altri grandi. Lui è Cesare. Nel gennaio del 62, Metello Nepote, con il suo appoggio, propone due rogationes (progetti di legge) per affidare a Pompeo poteri eccezionali, cioè un comando straordinario per affrontare l’esercito di Catilina. Plutarco e Dione Cassio denunciano la finalità eversiva del progetto di Metello Nepote. Strumento di tale presa del potere è l’elezione al consolato di Pompeo in assenza, e con effetto immediato. Cesare, che gli storici antichi colgono nella sua doppiezza, lui, che sotto sotto soffia sul fuoco della congiura, è un demagogo che appoggia Pompeo per ingraziarsi la massa, per potere abbatterlo meglio dopo.

C’è il grande Catone, che, in contrasto con Pompeo, organizza la resistenza del Senato a questa iniziativa, cercando un compromesso con Metello. II quale Metello reagisce minacciando il ricorso alla violenza nel caso dell’ingresso in città delle legioni pompeiane. Catone lo sostiene, e giura che si opporrà al ritorno di Pompeo in armi finché lui sarà in vita. Poi Metello è costretto alla fuga. Lo stesso Cesare è rimosso dalle funzioni di pretore. Ma a essere davvero sconfitto è il tentativo di portare Pompeo al potere violando le regole della Roma repubblicana. Pompeo, nel momento in cui Catilina si ribella, potrebbe prendere il potere con facilità. Ma se ne astiene. Potrebbe essere destinatario di onori smisurati. Ma li respinge. Sa bene, scrive Dione Cassio, che “tutti gli onori concessi dal popolo ai potenti fanno nascere il sospetto che siano il risultato di uno sperequato rapporto di forze e dell’azione manipolatrice dei potenti stessi”.

In questo teatro di giganti, Catilina perde, ucciso con i suoi a Pistoia, ed è Cicerone il temporaneo vincitore di questa partita giocata dietro le quinte della “congiura di Catilina”. Non sa di essere solo una pedina, perché dimentica o sottovaluta il fatto di essere senza un esercito. Pompeo rientra a Roma solo alla fine del 62, a questo punto decide di restare a occuparsi del riordino dell’Oriente. Tornerà solo alla fine di dicembre di quel 62. Fa un ultimo tentativo per fare occupare da suoi uomini le “poltrone consolari”. Ma Catone stronca anche questo disegno. A questo punto Pompeo scende a patti con Cesare per dar vita — insieme a Crasso — al triumvirato. È certo “un mostro a tre teste”, “una pesante anomalia costituzionale”, la fine della Res publica. L’unico sbocco possibile.

In questa vicenda, l’unico a perdere è Cicerone. Cicerone è un grandissimo intellettuale ma un politico modesto, perché non capisce il suo tempo. È un uomo moderno che però si batte per un passato ormai morente. Per una Repubblica ormai finita. Cesare, Pompeo e Crasso, invece, hanno capito che la Repubblica è finita, ma semplicemente, anche con lui, hanno rinviato la resa dei conti. Con Cicerone, perde anche Catone, “scomodo estemporaneo alleato”. Loro si sono imbattuti in Pompeo, e soprattutto in Cesare, che col triumvirato realizza il suo più grande colpo di genio. Catone è messo fuori gioco e Cicerone pagherà con l’esilio il patto fra i tre grandi. Cicerone, infatti, pur salvando prudentemente Cesare dalle accuse di complicità con Catilina (anche se intuisce che Cesare aspira alla tirannide), nel dicembre del 63, come detto, con “mania omicida”, ordina l’uccisione immediata degli arrestati ormai condannati nel carcere Tullianum, senza ricorrere alla provocatio ad populum, come prevedeva la Lex Valeria de provocatione del 509 a.C. (dove era previsto che i condannati potevano appellarsi al popolo, il quale poteva commutare la pena capitale in una pena detentiva).

Publio Clodio Pulcro, nemico più che avversario di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, entrato in carica come tribuno della plebe quattro anni dopo quei fatti terribili, nel dicembre del 59, riapre il dossier delle condanne a morte “eseguite contro le leggi Porcia e Sempronia”. Clodio sostiene che Cicerone ha addirittura falsificato il testo del Senatus consultum che aveva sancito quelle condanne. Clodio fa allora votare con un plebiscito una legge che stabilisce la pena dell’esilio, con valore retroattivo, a chi avesse deliberato una condanna a morte senza concedere la provocatio.

L’Arpinate, grande avvocato ma improvvido politico, accetta la sconfitta e si autoesilia “prima ancora che l’azione promossa contro di lui giungesse a compimento”, e va a governare “malvolentieri” per un anno una provincia romana e al ritorno “troverà la guerra civile già quasi in atto”. È la sua fine politica. Vuole inserirsi da protagonista nella politica, chiede aiuto a Catone, che però lo molla; Cesare lo “corteggia”, lui tentenna, non si sente nemmeno amato da Pompeo, prova a inserirsi nella lotta contro Antonio e dalla parte di Ottaviano, ma il suo tempo è scaduto. È fuori dal tempo, non ha più la percezione della realtà, cadrà sotto i colpi dei sicari di Antonio. Le sue mani e la sua testa furono esposte in senato appese ai rostri sopra la tribuna da cui tenevano le loro orazioni i senatori, monito per gli oppositori del secondo triumvirato tra Antonio, Ottaviano e Lepido. Allo stesso modo furono portate a Roma le teste di Catilina e di Pompeo. Si mise con Pompeo nella guerra civile e fu poi perdonato da Cesare. Però si congratulò per la morte di Cesare con i suoi assassini, anche se lo stimava come uomo e oratore.

Non era facile capire quel tempo, fatto di accordi segreti e conflitti tra famiglie nobili e gruppi di potere, uomini ambiziosi, che sfruttavano le etichette di partito per scopi personali. Ma fu una colpa per un grande intellettuale e formidabile avvocato e oratore, il creatore della lingua latina, come Cicerone. Poco lungimirante, vanitoso e ambizioso, ma generale senza esercito, che si mise infine al seguito di Pompeo senza passione e senza entusiasmo, patetico e colpevole nostalgico di una repubblica che gli aveva dato, sì, onori, dignità, nome e grado sociale, ma che, di fatto, non esisteva più.

Anche Catone, che diventerà l’Uticense, è una vittima del tempo. Nipote del grande Catone il Censore, anche se Dante ne farà una figura ideale, esempio di rettitudine, uomo incorruttibile, guardiano del Purgatorio, simbolo della libertà contro la tirannide, a tal punto che preferisce suicidarsi (a Utica) invece che farsi graziare e vivere sotto la tirannia di Cesare, anche lui è un uomo fuori del suo tempo. Grande oratore e filosofo stoico, campione di virtù repubblicane, caparbio e tenace e in questo forse un po’ patetico, non vedrà  il nipote e futuro genero Marco Giunio Bruto (perché sposerà sua figlia Porcia, che era anche cugina) pugnalare a morte Cesare, né vedrà il suo suicidio dopo Filippi il 23 ottobre del 42. Almeno questo gli fu risparmiato.

Qual è il senso di questa storia? Lucio Sergio Catilina, come detto, cade nella battaglia di Pistoia il 5 gennaio del 62 a.C., dopo essere andato in esilio dopo le prime Catilinarie, sapendo di morire, vuole morire con i suoi. La Repubblica romana era in grave crisi, anzi era finita, vi era una separazione netta tra istituzioni e società, gli optimates e l’oligarchia senatoria avevano in mano il potere giudiziario, erano una classe ottusa, lontana dal popolo, preda della voracità dei grandi proprietari terrieri – clientele e bande, ladri, imperversavano nella società e nel corpo elettorale. Di contro, la stragrande maggioranza della massa era senza una vera rappresentanza politica, umiliata da leggi a sfavore e tartassata dalle tasse.

Catilina si era fatto molti amici fra la plebe urbana e i veterani sillani indebitati, i piccoli proprietari terrieri e tra i cavalieri, gli equites, altra classe sociale in ascesa, basata sul censo, la piccola nobiltà locale, alla quale apparteneva lo stesso Cicerone, che si batterà molto per essa. La Repubblica era finita e il popolo, dai Gracchi in poi, aspettava il suo liberatore. Catilina aveva vizi e pregi della sua classe sociale e del suo tempo, era sì spregiudicato ma generoso, eroico, contradditorio ma non cinico, e rischiò di persona. Catilina faceva paura perché era diverso.

Nel suo disegno di rovesciare l’oligarchia senatoria, a seguirlo non sono gli homines novi, i borghesi italici ricchi, gli imprenditori che sanno di muovere l’economia, che si sentono classe dirigente e vogliono più potere politico, no, lui è l’idolo degli ultimi, dei precari senza diritti, dei braccianti, dei piccoli proprietari espropriati da Silla, degli artigiani, anche dei nobili sillani decaduti, dei frustrati, dei sicari senza nome e infine degli schiavi, una massa di gente diversa ma accomunata dai debiti e dal miraggio di una società più giusta. Era una congiura che doveva diventare rivoluzione, dopo i brogli e le violenze del pubblico potere, a Catilina non restava che la strada della guerra civile, ma qui entra in gioco la fortuna, e Catilina non ebbe fortuna. Chi lo favoriva nell’ombra non si sentì allora di entrare nella storia, dico l’uomo più ricco di Roma, Crasso, dico l’uomo più prestigioso di Roma che non aveva bisogno di Catilina per prendere tutto il potere, dico l’uomo più grande che l’Urbe abbia dato al mondo, Cesare, che anzi cancellò ogni elemento di complicità, e Catilina non fu fortunato e allora rimase il condottiero disperato di un’agitazione popolare repressa nel sangue, come sostiene il grande latinista Concetto Marchesi. Ma la Repubblica era finita. Forse lo capì anche Cicerone, se, anni dopo, in parte riabiliterà la figura di Catilina, consapevole evidentemente dei nuovi tempi che si annunciavano.

Nella Pro Caelio del 56 lo definirà addirittura “un buon cittadino, appassionato ammiratore degli uomini migliori, amico sicuro e leale”. Ma ormai era tardi, il suo tempo era finito. E lo capì soprattutto un altro capo dei populares, Gaio Giulio Cesare, ma lui aveva il genio, comprese soprattutto che lo Stato romano non si poteva riformare ma si doveva abbattere e rifondare, e questo si poteva fare non con un rivolgimento dal basso ma con un grande esercito fedele e con accordi con i più potenti. Certo, lui ebbe fortuna. Ma lui era un genio. Lui era il vento della storia.

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