L’unificazione italiana è opera di un Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente

di Francesco Bellanti

DIALOGO DI FRANCESCO BELLANTI E DI GIUSEPPE GARIBALDI, OVVERO DELL’UNITÀ D’ITALIA, DELL’IMPRESA DEI MILLE, DEL RISORGIMENTO, DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DEI BORBONE, DELLA MASSONERIA, DEL SOCIALISMO, DELLA STORIA, DELLA VERITÀ E DEI SOGNI

Cinque maggio 2011. Tarda mattina. Cimitero di Palma di Montechiaro. Garibaldi davanti all’ingresso, seduto, pensieroso

Seconda parte – fine

Garibaldi. Ehi, guapo, io sono un liberatore di popoli, io sono stato la guida di grandi popoli. E tu sei un rammollito, senza palle.

Francesco. Popolo? Quale popolo vi seguiva nell’impresa? Vi seguiva la feccia del popolo, briganti, uomini di malaffare, gente senza coscienza morale e civile, che aspettava solo il bordello per cavarci qualcosa, questi erano i vostri alleati. Avevate sparpagliato agenti e spie piemontesi per seminare odio fra la popolazione. I meridionali, invece, erano persone diverse da voi, perbene. Parlavano una lingua diversa, avevano leggi, istituzioni diverse. Moneta diversa. La loro moneta era di metallo sonante, prezioso, la vostra di carta. Avete messo a ferro e a fuoco case, terre e paesi, messi. Uomini illustri di onesta e chiara fama, marescialli, generali, colonnelli innocenti ma contrari ai Savoia – questo il loro unico peccato – furono incarcerati, arrestati, fucilati in massa, mandati in esilio, deportati chissà dove. Il Regno delle Due Sicilie, invece, è stato invaso, occupato e conquistato da delinquenti e fuoriusciti. Altro che liberazione!

Garibaldi. Lo Stato borbonico era arretrato e il popolo sottomesso e sfruttato. Questa era la condizione del tuo popolo, pezzo di merda!

Francesco. Offendete pure. Io continuo a sostenere che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato florido e potente, e Francesco II, come i suoi predecessori, aveva saputo dare al suo popolo ciò di cui aveva bisogno. Nel Regno c’erano città e capitali splendide, come Napoli e Palermo. C’erano un’industria e un commercio, un artigianato fiorenti. L’agricoltura era florida e ricca. C’erano l’esercito e la flotta più potenti della Penisola. Lo Stato borbonico era diventato il più grande, il più ricco, il più potente degli Stati d’Italia. Uno dei più potenti d’Europa.

Garibaldi. I Borbone erano una casta di cattivi governanti, amigo. Reazionari, arretrati, cattolici integralisti e ipocriti.

Francesco. Ferdinando II e Francesco II erano ottimi principi. Erano meridionali. Avevano lo stesso sangue, gli stessi vizi e le stesse virtù dei meridionali, e se mancava una vera costituzione liberale, questo era una colpa dei liberali meridionali. La guerra non l’hanno persa i Borbone ma i giovani napoletani e siciliani, i molisani, gli abruzzesi, i pugliesi, i calabresi, i lucani. La guerra l’hanno perduta a causa del tradimento, molti sono morti dimenticati dalla storia nelle squallide prigioni sabaude. Hanno conosciuto la miseria, la barbarie, l’emigrazione, il sottosviluppo, la malavita, e tutto questo è stato il lascito dell’Unificazione.

Garibaldi. La guerra l’hanno vinta i Mille, gli eroici, epici, Mille! Aiutati dai picciotti e dal popolo meridionale.

Francesco. I Mille! Chi erano questi Mille! I Mille scappavano da qualcosa. C’erano tra di loro militari inglesi, ufficiali ungheresi, polacchi, turchi. Dopo i Mille vennero fatti sbarcare altri 22.000 soldati piemontesi che erano stati fatti disertare. L’unica vera battaglia fu quella del Volturno, che i Borbone persero non per eroismo di Garibaldi ma per insipienza del comandante borbonico. In realtà, voi comandavate una teppaglia di canaglie.

Garibaldi. Sei uno stronzo! Non erano canaglie gli illuminati liberali meridionali che hanno accolto con entusiasmo l’Unità. E questi non erano fessacchiotti come i contadini. Erano borghesi colti, come i Mille che sono venuti a liberare il Sud.

Francesco. I liberali meridionali! Voi siete responsabile del loro miserabile destino. Li avete convinti con false promesse a diventare schiavi della borghesia del Nord. Hanno fatto sparire fabbriche, macchinari, beni religiosi e demaniali; hanno commesso ruberie, assassinii. Sono diventati tutti collaborazionisti, borghesi e massari arricchitisi sulla pelle di nobilotti borbonici decaduti, quelli che hanno fatto carriera coi nuovi sfruttatori. Questi sono diventati i peggiori nemici del popolo siciliano. I nuovi parassiti, quelli che hanno venduto le nostre industrie al Nord. E dopo la vittoria, con uno dei soliti falsi plebisciti, vi siete annessa mezza Italia con dieci milioni di Italiani.

Garibaldi. Giovanotto, io non mi intendevo di economia e di politica, queste discipline un po’ le ho studiate e capite dopo l’Unità. Io, in quel momento, avevo una missione suprema da compiere, io dovevo creare un popolo, uno Stato, una Nazione. In un tempo in cui popoli di poco conto avevano già una patria, un grande Paese come l’Italia non poteva restare ai margini della grande storia. Nessuno poteva interrompere quella missione, quel destino.

Francesco. Sono stati gli stranieri a compiere quel destino. Sono state le cancellerie inglesi, francesi e piemontesi a preparare lo scellerato disegno di fare conquistare il Regno delle Due Sicilie ai Savoia. I soldati garibaldini e piemontesi avevano fucili inglesi, molti agenti segreti piemontesi e inglesi furono trovati morti, evidentemente potevano dare fastidio. Militari e mafiosi li avete pagati con denaro inglese, milioni e milioni di lire. Vi siete lasciata dietro una scia infinita di chiese saccheggiate, fucilati, tra questi frati e preti, donne e bambini uccisi, migliaia di prigionieri e di arrestati. Voi eravate i conquistatori, gli oppressori. Non avete mantenuto nessuna promessa, vi pentirete di questa unificazione.

Garibaldi. E daje! Sei una musica, giri sempre il solito disco. Io dovevo unire l’Italia, le colpe e le responsabilità – se ci sono – dei problemi creati dall’Unità non mi appartengono.

Francesco. Va bene, cambiamo registro. Parliamo della vostra vita. Non mi pare che abbiate compiuto cose edificanti.

Garibaldi. Che hai da dire sulla mia vita? Vuoi continuare ancora a gettare fango sulla mia vita? Io sono un liberatore dei popoli, e tu sei un calunniatore, un mascalzone!

Francesco. Da semplice mozzo a generale! Bella carriera, don Peppì.

Garibaldi. Sì, e alla luce del sole. Mille e mille viaggi per mari ed oceani, prima di questo fardello dell’Unità: c’era il mare nel mio destino. Ho combattuto contro corsari e pirati, sono stato fermo ammalato in porti lontani e in terre sconosciute. Divenuto capitano, conobbi a Costantinopoli le idee mazziniane…

Francesco. Mazzini! Avete seguito ciecamente Mazzini, un terrorista sanguinario, che ha fatto saltare in aria vascelli, come la fregata Carlo III nel golfo di Napoli, uccidendo centinaia di persone innocenti. Che ha attentato alla vita di re, in particolare di Ferdinando II. Vogliamo parlare del fallimento di Pisacane e dello sterminio di centinaia di poveri disgraziati? O dell’attentato a Napoleone III dell’Orsini, otto morti e decine di feriti?

Garibaldi. Non è come dici tu. Senza la visione di Mazzini, senza il suo sogno, l’Italia non si sarebbe fatta! Con lui compresi che l’Unificazione dell’Italia era il momento iniziale della redenzione dei popoli oppressi, guida luminosa per la liberazione dei popoli. Mazzini ha cambiato la mia vita. Io avevo adottato l’umanità come patria e mi ero fatto cosmopolita, avevo liberato tanti popoli dalla tirannide, ero un eroe che doveva concludere questo destino.

Francesco. Eroe. Eroe dei due mondi! Come il generale francese Gilbert du Motier de La Fayette, eroe della rivoluzione americana. Lui però è stato un grande capo rivoluzionario, voi solo un guerrigliero che lottava per piccoli popoli.

Garibaldi. Giovinò, forse i popoli che liberavo erano piccoli ma gli ideali grandi. La mia effigie è su tutti i francobolli del mondo, io sono in tutti i musei d’Italia, il mio nome è scritto in tutti i luoghi del pianeta e ha dato origine a un aggettivo audace e temerario. Moltitudini di storici, romanzieri, sono stati affascinati dalla mia figura.Gli ideali mazziniani di libertà, uguaglianza, umanità sono scolpiti ancora oggi nelle bandiere e nelle leggi nelle terre dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul. Io lottai senza respiro contro l’Impero del Brasile, contro tutti gli imperi.

Francesco. In verità, molti allora vi consideravano un cospiratore pazzo, con poche idee.

Garibaldi. Amigo, sì, io, che ho subito l’infamia di essere considerato un cospiratore pazzo, un disertore e latitante per la causa mazziniana e per gloriose rivolte e insurrezioni popolari mai realizzate, io che riparavo presso fruttivendole e ostesse, io che viaggiavo sotto falso nome ed ero vittima di epidemie e di colera, io ho liberato migliaia di schiavi negri. Io ho compiuto mille imprese, assedi, battaglie, spedizioni, per liberare i popoli del Sudamerica e per portare la rivolta dei popoli oppressi all’attenzione dei grandi Stati europei. In Sudamerica ho propagandato le idee mazziniane, ho conosciuto la Giovine Italia e fui a capo della Legione italiana e non avevo neppure 28 anni.

Francesco. Oh, commovente! In realtà, voi e Mazzini siete stati assassini che avete provocato la morte di tante persone innocenti. Episodi di rivolta irrealizzabili, solo per provocare i governi. Voi siete stato condannato a morte come cospiratore e come bandito, siete stato un marinaio della flotta piratesca di Hussen Bey, Signore di Tunisi.

Garibaldi. Io non sono stato un bandito, io inseguivo le idee, la Giovine Italia, la carboneria…

Francesco. Voi siete stato un avventuriero che si celava sotto i nomi di Giovine Italia, carboneria, massoneria. Oh, la carboneria! Che cosa facevano i carbonari? Le sette carbonare, come la Società Nazionale con a capo Daniele Manin, avevano il preciso compito di organizzare azioni terroristiche e favorire la diffusione della stampa massonica che aveva il fine di influenzare l’opinione pubblica attraverso la pubblicazione di menzogne che screditavano i governi dell’Austria, dello Stato della Chiesa, del Regno delle Due Sicilie.

Garibaldi. Non infangare il nome della carboneria, cosa inutile!

Francesco. Va bene. Torniamo al Sudamerica. In Sudamerica, razziatore, pirata, avete assalito navi mercantili isolate, avete ucciso inermi marinai delle navi catturate, avete assalito villaggi di contadini, rubato oggetti, violentato le donne. Non vi facevate vedere l’orecchio destro, perché vi era stato staccato con un morso da una ragazza che volevate violentare, e per questo portavate i capelli lunghi.

Garibaldi. Ora hai rotto i coglioni, nullità, rottame della storia!

Francesco. Voi siete stato imprigionato per una efferata rapina durante la guerra tra Argentina e Uruguay, la guerra l’Argentina l’ha persa perché la flotta anglo-francese…

Garibaldi. Basta, miserabile!

Francesco. E poi Anita. Il marito di Anita, Duarte, è morto di crepacuore perché gliela avete rubato, Anita, e il Duarte lo avete ferito, malmenato. Questa è la verità sulla vostra vita. Quella nascosta.

Garibaldi. Pulisciti la bocca quando parli di Anita, pezzente! Quando la conobbi, Anita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, aveva diciotto anni, era una ragazza meravigliosa. Capii che faceva parte del mio destino. Ma devo andare, con te non c’è nessuna possibilità di dialogo. Tu sei solo un vile provocatore.

Francesco. No, continuate la vostra epopea. Faremo i conti alla fine.

Garibaldi. Non è necessario, la storia, anzi la leggenda parla per me. Dalla guerra di Indipendenza contro l’Austria del 1848 alla difesa della Repubblica Romana, e poi la caduta di Roma, le cocenti delusioni, con Mazzini, con Carlo Alberto, le incomprensioni, le sconfitte. Tutti conoscono le mie gesta. La sconfitta, la fuga, l’asilo a San Marino e la morte di Anita, sepolta come una cagna in un terreno isolato e incolto. Infine, Gibilterra, Tangeri, Liverpool, New York, la coabitazione con Meucci, la navigazione, i commerci, il Perù, la Cina, le Filippine, l’Australia, Boston. E poi ancora l’Europa, sempre Mazzini, l’acquisto di Caprera, la fattoria, la produzione di olio d’oliva, le vigne, l’allevamento di bovini, polli, capre, maiali, asini. Insomma, divenni contadino e allevatore.

Francesco. Meno male che c’era il problema dell’Unità d’Italia, altrimenti l’Italia avrebbe conosciuto un Garibaldi imprenditore. Altro che generale, patriota e condottiero. Uomo politico. Certo, una vita avventurosa.

Garibaldi. Sono commosso per gli elogi, giovanotto. Ti stai sprecando. Poi l’incontro con Cavour nel 1858, i Cacciatori delle Alpi, la Guerra di Indipendenza del 1859, la gloria di Bezzecca, le epiche battaglie, le vittorie, la gloria. Sconfissi grandi comandanti austriaci, poi ancora umiliazioni: mi mandavano in scenari bellici di periferia, mi toglievano il comando, ma tutto sopportavo per amore dell’Italia. Figliolo, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, il sogno, la mente, la forza, ciascuno a suo modo, furono uomini più grandi di me. Io però ebbi un’occasione unica, irripetibile, che non mi sarebbe capitata più nella vita, nessuno poteva fermare quel destino. Io ero l’uomo del destino.

Francesco. Un destino glorioso, eppure Vittorio Emanuele II non si fidava di voi.

Garibaldi. L’invidia della gloria. Ma l’Italia aspettava me. Solo gli armistizi poterono fermare la mia furia. Io trasformavo eserciti di riserva e di volontari in potenti dispiegamenti di forza, come accadde nell’impresa di Digione durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871. Io presi l’unica bandiera tedesca della guerra, la mia fu l’unica armata a dare gloria alla Francia. Solo io, lo disse anche Victor Hugo, sono intervenuto a difesa della Francia, io avevo capito allora dove avrebbe portato il militarismo prussiano: a Hitler!

Francesco. Non vi scaldate, Generale. Restiamo nell’Ottocento, per carità.

Garibaldi. La mia fama attraversò gli oceani. Mi vollero a capo dell’esercito nordista nella guerra civile americana. Io però volevo un impegno deciso per l’emancipazione degli schiavi negri, non mi diedero nessuna certezza, e allora rifiutai, era una guerra che non mi interessava. Poi fui accolto trionfalmente a Londra nel 1864 ed incontrai Henry John Temple, Terzo Visconte Palmerston, e Mazzini.

Francesco. Forse volevate essere nominato comandante in capo di tutto l’esercito nordista, per questo non vi diedero l’incarico. Per le vostre ambizioni, stavate perdendo la testa. Eravate una mezzatesta, Generale. La follia dell’Aspromonte del 1862, volevate marciare verso Roma contro i Francesi unici amici del Regno d’Italia, che cazzata! Tentativo velleitario, senza senso. Ancora morti. E poi l’altra follia del ’67, con il sacrificio inutile dei fratelli Cairoli e di altri che furono decapitati. Roma, una città che non conquistaste mai! L’onta di Mentana, e sempre l’arresto. Voi, un deputato del Regno, un eroe!

Garibaldi. Fui tradito dai romani, che non sono stati mai capaci di una rivoluzione. Io ero un precursore, pochi mi capirono. Fui favorevole al suffragio universale e all’attuazione della piena democrazia, all’autodeterminazione dei popoli. Fui poeta e scrittore, storico. Mi battei per l’abolizione della pena di morte.

Francesco. Siete stato anche un massone. Curioso che l’unificazione italiana sia opera del Gran Maestro del Grande Oriente di Palermo e d’Italia, col 33° grado del Rito scozzese.

Garibaldi. Guagliò, mettiti il cuore in pace: il Risorgimento Italiano e gran parte della storia moderna sono opera della massoneria. Sì, è vero, fui massone, e raggiunsi i vertici della massoneria, ma allora la massoneria esprimeva valori che hanno fondato le Nazioni e la civiltà moderna.

Francesco. Siete stato un anticlericale pervicace.

Garibaldi. Fui anticlericale ma non anticattolico, ero contro i preti discendenti di Torquemada, nemici del genere umano e dell’Italia.

Francesco. Non vorrete dirmi che eravate un fervente religioso?

Garibaldi. Io non ero ateo. Io vedevo nella Chiesa il maggiore ostacolo all’Unità d’Italia. Ma io credevo in Dio.

Francesco. Via, lo sanno tutti che avete frequentato società atee e razionaliste negli ultimi anni della vostra vita.

Garibaldi. È vero, ma io ho sempre creduto in Dio e nell’immortalità dell’anima.

Giuseppe Garibaldi, checché se ne dicesse allora, cioè che ero corto di senso, aveva troppa ricchezza di spirito per escludere Dio dal suo orizzonte religioso e culturale. D’altra parte, non potevo dimenticare che preti e monaci avevano combattuto per me e per l’Unità d’Italia e la liberazione dei popoli oppressi.

Francesco. Anche il vostro socialismo, per la verità, era un po’ confuso.

Garibaldi. Io credevo nell’unico socialismo possibile, quello democratico. Democrazia socialista. Un socialismo umanitario, impregnato di principi etici e di valori cristiani. Ero contro il socialismo marxista e il collettivismo anarchico bakunista. Io che avevo combattuto per la libertà di tutti i popoli, che sentivo come mia la causa della libertà di tutte le Nazioni, avevo un grande spirito e una grande coscienza internazionalista. Io sognavo una società più giusta e più umana, fondata sul progresso. Io ero per la solidarietà umana, l’emancipazione politica e sociale delle classi più povere e sfruttate, per l’affermazione dei valori della famiglia e della patria. E lo schiavo ha diritto di fare la guerra ai tiranni. La proprietà privata, come la cooperazione, o le varie forme di associazione, non sono altro che strumenti e mezzi del progresso sociale. Ti sembrano cattive idee queste?

Francesco. Non sono sicuro che fossero veramente queste le vostre idee. La vostra mente è parsa sempre un po’ confusionaria. Però, devo ammetterlo, su una cosa non avevate confusione. Voi, l’eroe nazionale degli Italiani, un titano della storia, uno dei personaggi storici più famosi al mondo, così debole!

Garibaldi. Su che cosa fui debole?

Francesco. Le donne. Quante donne, Generale! Vi piaceva la figa, ah!

Garibaldi. Figliolo, non scendiamo troppo in basso! Sì, ho amato, ho tanto amato. Ma, in verità, io cercavo sempre Anita, perché ho amato solo Anita. Dalla nobile inglese Emma Roberts alla contessa Maria Martini della Torre, alla nipote di Gioacchino Murat, Paolina Pepoli. E Maria Esperance von Schwartz, Battistina Ravello, la fedigrafa Giuseppina Raimondi, la mia terza moglie Francesca Armosino. In loro io vedevo sempre Anita.

Francesco. Che varietà! Nobili, domestiche, puttane! Giuseppina Raimondi! Anche i grandi possono subire l’oltraggio delle corna!

Garibaldi. Già. Ma è pure un modo per sentirsi mortali. È giusto che possa accadere l’oltraggio delle corna.

Francesco. E quanti figli, Generale! Otto quelli ufficiali. Domenico Menotti, Rosa, Teresita, Ricciotti, da Anita. Un’altra Anita la aveste dalla Ravello. Clelia, Rosita, Manlio dalla Armosino. E quelli illegittimi, Generale? Vogliamo parlare di Giannina Repubblica Fadigati…

Garibaldi. Figliolo, io ho avuto una vita gigantesca. In una tale vita si possono commettere anche errori. I miei amici Fadigati volevano allevare un figlio di sangue garibaldino, e accettai di fecondare la signora Fadigati più che per amor patrio per vanità. Lo ammetto: ho sbagliato. Non dovevo. I figli devono nascere dall’amore. Ma ora devo andare, amico mio. Sono stanco, centocinquanta anni di storia e di morte cominciano a farsi sentire. Devo andare…

Francesco. Dove andate, Generale? Vi siete innervosito?

Garibaldi. È che mi hai rotto i coglioni, oggi.

Francesco. Perché, Generale, molte delle cose che ho detto non sono forse vere?

Garibaldi. Amico mio, si potrebbero scrivere ancora migliaia di libri, la verità definitiva sull’Unità d’Italia non si saprebbe mai. In una rivoluzione, poi, non tutte le cose si possono controllare. La verità cammina, è sempre un passo più avanti della storia. La storia non dà mai verdetti definitivi. La storia procede spesso in modo tortuoso. Possiede la storia solo chi possiede la verità. Ma la verità non sta sepolta nei libri o nelle memorie. La verità cammina. È come lo spirito del tempo. Le forze immani della storia e lo spirito del tempo in quegli anni avevano deciso che l’Italia andava unificata. Così doveva essere e così è stato. La verità è come un sogno, che non si può fermare. Solo gli uomini che hanno un sogno fanno la storia. La verità la possiedono solo gli uomini che hanno un sogno. La verità è un sogno che vola alto sulle miserie umane.

Francesco. E voi avevate questo sogno, l’Unità d’Italia.

Garibaldi. Sì, Francesco. Questo era il mio sogno. Io ho creato l’Italia, il progresso, la storia. Io sono il fondatore dell’Italia moderna, Paese guida della civiltà del mondo. E l’altra verità è che tu invece sei dalla parte sbagliata della storia. Nel bene e nel male, l’Italia andava fatta, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla storia, schiacciata da forze immani come l’Impero Austriaco, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Russia, l’America.

Francesco. Capirai che guadagno! Bella cosa oggi l’Italia di Dante, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leopardi, Galilei, Verdi!

Garibaldi. Mon ami, in centocinquanta anni ci sono state tre guerre coloniali, cinque emigrazioni di massa, l’assassinio di un re, la dittatura fascista, due guerre mondiali, la caduta della Monarchia, la perdita di tutte le colonie, la guerra civile, la Repubblica, il terrorismo, le stragi, il boom industriale, le crisi economiche, gli scandali, la mafia, la disoccupazione, le lotte per i diritti civili, almeno cinquanta governi inutili o criminali, e l’Italia ancora esiste. L’Italia oggi è una delle nazioni più ricche e industrializzate del mondo, faro di progresso e di civiltà nel mondo. E questa nazione l’ho creata io… Perché sorridi?

Francesco. Ho voluto provocarvi, Generale. È stato tutto uno scherzo. Forse di cattivo gusto, lo riconosco, ma è stato uno scherzo. Avete ragione voi, la verità cammina. La verità è un sogno. E io credo nei sogni. Io questa notte ho sognato voi, Generale.

Garibaldi. Davvero? Come mi hai sognato, Francesco?

Francesco. Sì. Vi ho sognato come un Garibaldi-Dio. O un Dio garibaldino. Ho sognato Garibaldi-Dio a cavallo sotto il più alto degli eucalipti della mia campagna. Aveva il moschetto nella mano sinistra e una lunga spada nella mano destra dentro un fodero di metallo nero, alla cintola un pugnale e un revolver col manico d’osso bianco, stivali di cuoio nero, una stampella che aveva scritta sul manico la parola Aspromonte. Cavalcava la cavalla Marsala, era con le redini attaccate a un ramo dell’eucaliptus e nitriva e recalcitrava, alzava la testa e guardava la soma immortale sulla groppa. Garibaldi-Dio aveva una fluente e folta, bellissima, barba bionda, capelli lunghi e lisci, pure essi biondi, occhi azzurri, luminosi e penetranti. Indossava una camicia, rossa, e i pantaloni azzurri, una stella a sette punte sul petto, un fazzoletto blu intorno al collo che aveva disegnati i simboli della massoneria. Fumava un sigaro toscano che faceva ampi cerchi nell’aria. Un Dio che fumava. Per un momento scambiai Garibaldi-Dio per uno dei falsi profeti e ciarlatani che da sempre si aggirano in questo paese, ma questo Garibaldi somigliava troppo a Dio per non essere Dio, Dio era Garibaldi. Un Dio guerriero e patriota, mi diceva che aveva sofferto ed amato, che aveva combattuto, era un Dio severo e austero. Mi diceva che lui era il mitico, leggendario, solenne, immortale, immenso eroe nazionale italiano e che era anche Dio. Solo Cesare, diceva, poteva contendergli la palma di eroe nazionale-Dio, ma Cesare era un pagano e lui invece era un cristiano, era un Garibaldi-Dio del glorioso Risorgimento. Garibaldi-Dio voleva l’Unità d’Italia. Alla fine Garibaldi-Dio ha sguainato la spada di Calatafimi, ha gridato “Qui si fa l’Italia o si muore!”, ha lanciato il tremendo monito di Dio, ha spronato la cavalla Marsala verso l’orizzonte, verso le campagne e le città, le immortali vestigia d’Italia, poi si è dileguato ed è salito sulle nuvole come un Dio.

Tratto da Francesco Bellanti, Voci dell’Oltretomba, Amazon, 2023

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